PER UN RITRATTO DI KAREL-ZLIN PITTORE.

Luca Pietro Nicoletti

Conosco il moravo Karel-Zlin (al secolo Karel Machálek) grazie al gallerista parigino Nicolas Rostkowski, il quale, la prima volta che mi recai a Parigi, mi portò in visita allo studio di questo artista dall’apparenza riservata, distinta, capelli e baffi bianchissimi. Se non me lo avessero presentato, avrei detto che fosse un poeta, e nulla mi avrebbe fatto pensare che, accanto a una raffinata produzione in versi sia in moravo sia in francese, la sua attività prevalente fosse rivolta alle arti visive, specialmente alla scultura.

Mi ricordo che fu una visita difficile, perché il suo atelier era talmente ingombro di opere di tutte le dimensioni da rendere difficile persino mostrarle, se non portandole all’aperto una per una, camminando in uno spazio risicato che poteva diventare una trincea con quadri e piccole sculture a destra e a sinistra. Zlin, invece, vi si muoveva con la familiarità di chi sa esattamente il posto destinato ad ogni cosa. Con il suo fare discreto e una parlata sobria, ci aveva mostrato un po’ di opere, ma senza esagerare, con un riserbo raro: direi senza dubbio non lo si può collocare in quella categoria di artisti che subissano i visitatori del loro studio mostrandogli di tutto fino allo stordimento. Parla molto lentamente, con fare posato e tono sobrio, senza balzi, e capisce l’italiano, perché da giovane aveva passato un periodo di studio in Italia, all’Accademia di Francia di Villa Medici, a Roma, che gli ha lasciato una traccia profonda.

Eppure, di fronte a quest’uomo così mite, che pare adatto solo a tenere in mano la penna, bisogna ricordarsi che in passato è stato autore anche di opere monumentali e commesse pubbliche di rilievo. Basta ricordare il grande bronzo della Barque solaire, eseguita nel 1993 su commissione del Ministero della Cultura, sotto la presidenza di Mitterand, e collocato nel parco del Castello di Rambouillet: una grande barca su ruote lunga ben sette metri, con una grande sfera poggiata a prua e un nudo maschile, di rodiniana memoria, in posa ponderata, il braccio destro alzato in un gesto da scultura classica d’accademia. Un’opera di difficile interpretazione, ricca di simbologie esoteriche che sembrano alludere a un allegorico rito di iniziazione: tutto sta a capire dove sia diretta quella barca, foggiata nello stesso cantiere da cui sono nate le barche dei morti dell’antico Egitto. Un anno più tardi, invece, Zlin fondeva una grande Architecture anthropomorphe, alta tre metri, oggi ospitata nel parco della Fondazione de Coubertin, appena fuori Parigi, dove sta in compagnia di altri maestri della scultura francese, Bourdelle in testa.

Accanto alle grandi opere, però, nella sua pittura si ritrova una dimensione più intima e contenuta, che pare rifuggire da eccessi di monumentalità. Restano costanti, però, le stesse passioni, i medesimi referenti. Si può dire che quella di Karel-Zlin sia un’arte “senza tempo”, che ha attraversato la seconda metà del Novecento tenendo dei punti di riferimento costanti: anche all’interno del mutamento di stile da una fase all’altra della sua produzione, si riconosce un debito costante verso la tradizione del Surrealismo e della Metafisica. L’opera di De Chirico è stata un faro permanente a cui guardare. È lecito credere che queste opere di Zlin, o sicuramente alcuni suoi momenti, sarebbero state gradite a Waldemar George, quando questi sostenne che il futuro dell’arte moderna sarebbe stato nel ritorno al classico e a una pittura che affondasse le sue radici nel Mediterraneo. Credo oltretutto che Karel-Zlin non avrebbe potuto dipingere opere di questo genere se dalla natia Moravia non si fosse trasferito a Parigi, o se non avesse guardato a quanto a Parigi si faceva nel periodo fra le due guerre, sebbene la sua esperienza artistica si svolga tutta dal secondo dopoguerra ai giorni nostri. Eppure, quella pittura nitida e tersa, fatta di elementi geometrici, ovoidi, compassi e una selva di squadre fluttuanti, organizzate con grafica eleganza paratattica non si spiegherebbe senza quel modello, pure trasformato in un motivo che aspira all’astrazione geometrica: è un mondo di forme e di oggetti a sé stante, collocato in una sua propria dimensione in assenza di forza di gravità.

Non si esaurisce qui, però, l’opera di Zlin, e queste prime annotazioni non bastano a rendere giustizia delle variegate sfaccettature del suo lavoro, in cui assumono un ruolo non secondario elementi esotici e simbolismi esoterici. È in questa chiave che va letta, ad esempio, la sua passione per l’Egitto, che è anche al centro di alcune sillogi di poesia. Dell’antica civiltà del Nilo egli ama tutto, dal valore decorativo dei geroglifici ai suoi aspetti più misteriosi. In alcune tele recenti, del rebus della scrittura per immagini ha preso il ritmo, e ne ha fatto un motivo astratto sul piano.

A questa, poi, si deve aggiungere una intensa attività di illustratore, con una marca prevalentemente figurativa e fatta di disegno in punta di penna. Mi colpì particolarmente, ad esempio, quando Zlin mostrò a Stefano Cortina e a me le illustrazioni per una traduzione in ceco, pubblicata a puntate su una rivista alla metà degli anni Sessanta, del Deserto dei Tartari di Dino Buzzati: era questo il referente che mi mancava per dare una aggettivazione letteraria alla pittura di Zlin. Il suo lavoro, almeno in certe declinazioni, sembrava fatto apposta per andare d’accordo col racconto di Buzzati, della cui scrittura conserva l’inquietudine e il mistero.

Di certo l’esperienza dell’illustrazione ha lasciato una traccia profonda nella sua pittura. Se infatti riuscì solo nel 1994 a fondere la grande Architecture anthropomorphe,a questa vanno accostate numerose “sculture dipinte” rimaste relegate nelle due dimensioni del piano pittorico, ma con una forte tentazione plastica ad uscirne per conquistare la terza dimensione. Non ci sarebbe potuto essere, oltretutto, nome migliore per definire queste sculture di vocazione architettonica, ma con volto e occhi sparsi in varie parti: un affollarsi di simboli e arcaismi dà vita, qui, a un idolo pagano di un culto non precisato. Non importa nemmeno, in fondo, riuscire a decriptare quel complesso di segni in codice che si affollano fra i sottosquadri e le ombre dipinte. Conta di più notare, invece, come in fondo questa dimensione simbolica avvolga il lavoro di Zlin di un’aura antica, di un ricordo di arcane, totemiche civiltà.